Il giovane Holden – J. D. Salinger

salinger.jpgJerome David Salinger (1919-2010) è stato un noto scrittore statunitense che, però, non si è mai abituato alla fama raggiunta, restando sempre schivo e solitario e concedendo poche interviste. Prese parte ad alcuni importanti avvenimenti della seconda guerra mondiale, periodo in cui conobbe anche Ernest Hemingway, che di lui disse: “Ha un talento straordinario!”. L’esperienza della guerra sarà una dolorosa costante che non riuscirà mai a scrollarsi di dosso.

Pur avendo scritto e pubblicato precedentemente diversi racconti, il successo arrivò nel 1951 con la pubblicazione de Il giovane Holden (The Catcher in the Rye), un romanzo semi-autobiografico e decisamente moderno che descrive le difficoltà dell’adolescenza con tono ironico e dissacrante. L’autore ha voluto che la copertina dell’opera non avesse nessuna illustrazione, in modo che “il libro non venisse scelto per la copertina”.

“A volte mi comporto ancora come un dodicenne. Lo dicono tutti, specie mio padre. Un po’ è anche vero, ma non fino in fondo. La gente pensa sempre che una cosa sia vera fino in fondo. A me non me ne frega niente, solo che ogni tanto mi rompo di sentirmi dire che devo comportarmi come uno della mia età. Certe volte mi comporto come se fossi molto più grande, giuro, solo che a quello la gente non fa caso. La gente non fa mai caso a niente.”

Il sedicenne Holden Caulfield viene espulso dalla scuola in cui studia (non è la prima volta che è costretto ad allontanarsi da un istituto), e decide di andarsene subito sebbene non possa tornare a casa, visto che i genitori devono ancora essere informati. Si dirige verso New York, città dove vive la sua famiglia, piuttosto benestante e particolarmente seppur brevemente caratterizzata. Fa avanti e indietro tra il misero hotel in cui alloggia e alcuni locali, dove non perde l’occasione di ubriacarsi: almeno quando riesce, visto che è ancora minorenne.

“E’ questo che sto cercando di dire. E’ esattamente questo, cazzo. Io non riesco a trovare niente praticamente in niente. Sono conciato malissimo. Sono conciato da far schifo.”

holdenCol passare delle ore, Holden è sempre più depresso, così contatta una ragazza con cui usciva una volta e combinano un appuntamento: anche in questa occasione, il cinismo del ragazzo prende il sopravvento, infatti, critica attori, spettacoli, musicisti, e in generale le persone che gli stanno attorno, incurante di ferire i loro sentimenti e definendoli un branco di bastardi ipocriti e imbecilli.

Le critiche che Holden rivolge gratuitamente alla società lasciano emergere la sensibilità che lo rende emotivamente instabile e il suo sarcasmo, dietro cui si nasconde un animo fragile che non sa dove dirigersi per trovare il suo benessere. Questo fa sì che il protagonista susciti tenerezza e una profonda comprensione. Holden ha uno slang quasi comico nel raccontare gli episodi: mette davanti ai nomi propri l’aggettivo “vecchio” (“la vecchia Phoebe“) anche se non parla di vecchi, intercala le frasi con “ragazzi” per includere il lettore o con espressioni come “mi fa morire” o “a momenti ci resto secco“. Usa spesso l’espressione “essere in vena” o la locuzione “nel senso che”. Una volta che si è abituati a questo uso del linguaggio, il narratore ci sembra un amico che ci narra le sue vicissitudini in confidenza.

“A te capita mai di non poterne più? Cioè, non hai mai paura che vada tutto a rotoli, se non fai qualcosa tu? Voglio dire, la scuola, tutta quella roba lì, ti piace?”

Le persone con cui il ragazzo si rapporta dicono molto di più su di lui che su loro stesse, mettendo in luce i lati più sofferenti del suo carattere. Alcuni personaggi del libro non appaiono mai fisicamente, ma sono evocati dai forti ricordi del narratore (Holden stesso, appunto), come per esempio l’amica Jane e i fratelli Allie e D.B..

Nonostante la vicenda abbracci soltanto un paio di giorni, è ben densa di conflitti interiori tipici dell’adolescenza, di amori dolorosamente non corrisposti, di illusioni che si infrangono contro la realtà e di rabbia anche nei confronti di chi appare innocente. Infatti Holden non vuole crescere, è legato alla sua infanzia, che è stata sicuramente più felice della sua adolescenza.

“La caduta verso cui credo sia avviato tu… è una caduta tutta particolare, orribile. Chi cade non ha neppure modo di accorgersene, o di sentire quando tocca il fondo. Continua a cadere e basta. E’ una sorte riservata agli uomini che, a un certo punto della vita, si sono trovati a cercare qualcosa che il loro ambiente non era in grado di dargli. O che loro pensavano non fosse in grado di dargli. Allora hanno smesso di cercare. Si sono arresi prima ancora di cominciare davvero.”

catcher.jpgHo apprezzato molto i frequenti riferimenti ad altre opere e ad altri autori: Addio alle armi, Il grande Gatsby, lo spettacolo I know my love coi coniugi Lunt, Il ritorno del nativo, La mia Africa, Thomas Hardy, Ring Lardner, Song of India, Il club dei trentanove e ovviamente la canzone Comin’ through the Rye di Robert Burns.

Il giovane Holden è un intenso romanzo di formazione che cattura il lettore dalla prima all’ultima pagina, è un must imperdibile per chiunque, tanto da aver avuto e avere tutt’oggi influenze significative nella cultura di massa (film, cartoni, musica, libri).  Leggendolo mi sono sentita come se mi sussurrasse “non sei da sola”, come se tutti i disagi intimi e personali fossero in realtà problemi universali: è stata una coccola che avevo bisogno di concedermi.

Lessico Famigliare e Gli antipatici

Lessico Famigliare e Gli antipatici

Due libri letti uno dietro l’altro e legati tra loro, infatti, sono stati pubblicati nello stesso anno: Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg (1916-1991) e Gli antipatici di Oriana Fallaci (1929-2006).

nataliaLessico Famigliare (Einaudi, 1963) è un romanzo autobiografico di memorie in cui l’autrice ricorda la sua famiglia. Il filo conduttore è proprio il lessico: modi di dire e parole ripetute così tanto dai personaggi da diventare caratterizzanti. Natalia Levi racconta la sua infanzia e la sua adolescenza a Torino, le gite in montagna, la scuola, descrivendo con gli occhi di una bambina poi cresciuta i fratelli, le domestiche, la gente che passava per casa sua. Fino ad arrivare al fascismo, che ha spinto parte della famiglia a trasferirsi all’estero e che le ha strappato l’adorato marito Leone Ginzburg.

“La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l’era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c’era più uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c’era. In Italia fu così la guerra.”

Ma non è un libro sulla guerra, anzi, è la storia di unalessico famiglia che si è trovata ad affrontare gli anni forse più dolorosi e cruciali per la nostra nazione. Ed è la storia di una ragazzina che fin da subito avverte una forte passione per la letteratura e la scrittura e, per l’appunto, dopo la guerra va a lavorare in una casa editrice torinese, proprio accanto a Cesare Pavese.

Si tratta, tutto sommato, di una testimonianza romanzata piuttosto breve, scritta in modo apparentemente leggero e povero di fronzoli: “come scrive un uomo” dichiarerà l’autrice. Non si è utilizzata la divisione in capitoli, ma la scrittura risulta comunque ordinata e logica, a volte compaiono ripetizioni ma sono sempre funzionali, e non è un caso che il libro si chiuda così com’era iniziato. L’opera ha vinto nel 1963 il Premio Strega.

antipaticiGli antipatici (Rizzoli, 1963) è una raccolta di diciotto interviste realizzate tra il 1962 e il 1963 da Oriana Fallaci. Gli antipatici sono definiti così perché sono quei personaggi talmente famosi, talmente chiacchierati e onnipresenti da risultare antipatici, anche se spesso non lo sono. Tra di loro, appunto, c’è Natalia Ginzburg.

Lo stile incalzante e agguerrito di Oriana Fallaci smaschera la vera natura dei personaggi che va ad intervistare: Ingrid Bergman, Don Jaime, Nilde Iotti, Federico Fellini, Arletty, Baby Pignatari, Catherine Spaak, Gianni Rivera, Afdera Franchetti, don Antonio Ordóñez, Cayetana d’Alba, Salvatore Quasimodo, Jeanne Moreau, Alfred Hitchcock, Anna Magnani, Porfirio Rubirosa, Natalia Levi, Giancarlo Menotti. Grandi personalità di quegli anni che io, almeno la maggior parte, non conoscevo; ma, incuriosita, ho deciso di approfondire la loro storia, stuzzicata dalla particolarità dei soggetti.

Fallaci: Lei è un uomo felice. Forse l’unico uomo famoso […] che sia anche felice.

Antonio Ordóñez: Certo che sono un uomo felice. Muy felicissimo. […] Guarda, la felicità è quella che tengo: la gioventù, una posizione, una famiglia, i miei amigos, uno sputo sopra il denaro. La felicità… è fatta di una cosa grande: apprezzare la vita sapendo che dopo viene la morte. Ed è fatta anche di altre piccole cose: gamberi arrosto, cuore allo spiedo, sardine fritte, un bel po’ di Jerez e poi il flamenco. Laviamoci la faccia, prendiamo il gippone, e andiamo a Siviglia. Vámonos.


Giancarlo Menotti: Dev’essere perché ho sempre sofferto di un complesso di colpa, quello di non far niente per gli altri, e di un terrore costante, quello d’essere inutile.

Le personalità più negative, azzarderei dire, si sono rivelate proprio i due grandi registi, da cui la Fallaci resta profondamente delusa. Lo stesso le succede di fronte alla pluri-titolata Cayetana d’Alba e al Premio Nobel Quasimodo, impegnato più che mai ad autocommiserarsi e a lodarsi. Soprattutto i nobili e i ricconi si rivelano una deludente sorpresa – ma forse neanche tanto!

Dal mio punto di vista, le interviste meglio riuscite, le più interessanti, quelle con le persone migliori, forse le più intelligenti, sono, in generale, quelle con le donne: chi più chi meno.

Ingrid Bergman: Certo, io non posso dividere il cuore dal cervello. Quando un uomo mi piace, mi piace col cuore ma nello stesso tempo lo giudico col cervello, mi chiedo se vale qualcosa. Insomma: io non posso, non potrei mai innamorarmi di un cretino.


Arletty: La mia solitudine, mia cara, è totale: profonda come il mare. La solitudine non è solo conquista, è libertà. E io ho un gusto mostruoso per la libertà.

annaForse la più sincera è stata Anna Magnani:

Al grande amore non ho mai creduto. […] I grandi amori, cara mia, non esistono: son fantasie da bugiardi. Esistono solo piccoli amori che durano un periodo di tempo più o meno breve. Per questo, tutte le volte che io ho amato un uomo, non me la sono mai presa troppo. L’ho amato, ma sapendo che doveva finire. E quando finisce… si piagne un po’, ma poi se ne esce.

Pietà non me ne faccio mai: detesto la pietà, soprattutto verso sé stessi. […] Di errori ne ho fatti parecchi, di cattive azioni mai. Non dimentico i torti subìti, spesso non li perdono, ma non mi vendico: la vendetta è volgare come il rancore.

è tutta la vita che mi tormentano con la storia che sono superba, arrogante, villana, sboccata: insomma che ho cattivo carattere. E «Anna questo non si dice», e «Anna questo non si fa»: dàgli oggi, dàgli domani, ho finito per crederci e tentar quello stupido tradimento di sé stessi che chiamano correggersi. Mi dica: ma ho davvero cattivo carattere?

Fallaci: Io direi che ha carattere. Tutta la gente di carattere ha cattivo carattere. La gente sbaglia sempre il rispetto di sé stessi e l’amor di giustizia per cattivo carattere. Si faccia pestare i piedi, subisca mortificazioni alla sua dignità, lasci gridare viva il duce, e diranno che ha buon carattere.

Fallaci: Io penso… io penso che lei sia un grand’uomo, signora Magnani.

E per tornare dove siamo partiti: la penultima intervista della raccolta è proprio quella, illuminante, a Natalia Ginzburg, che per anni è stata un esempio di scrittura per la Fallaci.

Ho le mani bucate e non credo al risparmio, capisce, né per i soldi né per le cose dello spirito. Non si dovrebbe mai metter da parte soldi, sentimenti, pensieri: perché dopo non si usano più.

I dolori non guariscono mai: però a un certo punto si guardano con distacco. Io non riesco ancora a guardarvi con distacco: ecco. […] Io credo che si arrivi all’allegria attraverso il dolore, che dolore e allegria siano intrecciati.

L’ironia è una delle cose più importanti del mondo, perfino l’amore è sempre mescolato con l’ironia, perfino la conoscenza.

Se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. […] Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi.

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La tecnica impeccabile anzi magistrale di Oriana Fallaci rende queste interviste un documento storico che a distanza di cinquantasei anni dimostra, inalterato, il suo inestimabile valore. La sua opera ha suscitato in me un’insaziabile nostalgia per il secolo scorso.

Entrambi questi libri si sono rivelati imperdibili per conoscere più da vicino la storia italiana del Novecento, intrecciando la letteratura con la Verità.